E’ sicuramente noto a tutte il caso, recentemente emerso, di Adama, donna senegalese ed ennesima vittima della doppia violenza, maschile e di Stato. Per farla breve, dopo anni di violenze e soprusi da parte dell’uomo con cui conviveva, Adama ha deciso di rivolgersi alle forze dell’ordine e, per tutta risposta, è stata rinchiusa nel Cie di Bologna perché sprovvista del permesso di soggiorno.
Sulla sua situazione circola da giorni un appello, pubblicato in occasione del 25 novembre e ripreso da vari quotidiani.
La storia di Adama ha colpito molte/i. A leggere le centinaia di firme raccolte per lei in pochi giorni si direbbe che abbia colpito anche appartenenti a quegli stessi partiti che, durante il governo Prodi, votarono proprio a favore della creazione di questi lager per migranti, allora denominati Centri di permanenza temporanea, con la famigerata legge Turco-Napolitano (legge 40/98).
Ovviamente siamo dalla parte di Adama, e speriamo che possa al più presto uscire dall’orrenda gabbia in cui è stata rinchiusa. Ma proprio perché siamo dalla sua parte, anziché firmare un appello preferiamo ribadire che questi lager devono essere chiusi UNA VOLTA PER TUTTE.
Essere dalla parte di Adama significa, per noi, andare oltre Adama.
Soffermarsi su un caso singolo, senza farlo diventare emblematico della condizione che migliaia di donne e uomini immigrati in Italia (e nella Fortezza Europa) vivono da oltre un decennio, può sicuramente essere utile per lavare la “coscienza” di chi ha permesso l’infame creazione di quei luoghi di internamento o di chi non si è speso/a per la loro chiusura definitiva. Ma è certamente un passo indietro che non serve alle tante altre immigrate “senza nome” che vi vengono e vi verranno, in futuro, rinchiuse.
Come corollario ricordiamo anche l’importanza della solidarietà a compagni e compagne colpiti dalla repressione per essersi spesi, per anni e con costanza, nella lotta contro i Cie e in appoggio alle ribellioni di chi vi è rinchiuso. Proprio a Bologna, dove Adama è rinchiusa, si aprirà il 12 dicembre prossimo il processo contro le compagne e i compagni del Centro di documentazione Fuoriluogo. Una azione giudiziaria avallata ad hoc da compiacenti giornalisti, da cui traspare con chiarezza quanto la lotta fattiva contro i Cie ed il suo allargamento, nonché il contatto diretto con le persone recluse, terrorizzino gli apparati di dominio.
Inoltre, la genealogia delle più recenti leggi razziali in Italia dimostra inequivocabilmente che è stata proprio la Turco-Napolitano, anche con la creazione dei Cpt, ad aprire la strada alla Bossi-Fini, e non viceversa. Negare questo è una forzatura ideologica che porta a dimenticare che la violenza contro le donne nei lager per migranti è emersa all’indomani dell’apertura dei primi Cpt, come rammentavamo nel nostro Dossier 10 anni più tardi:
2/6 5° ingresso – Riusciamo a vedere diversi detenuti tra cui due donne nigeriane. Entrambe dichiarano di essere in gravidanza ma di non aver potuto fare il test in quanto non avevano il danaro con loro (il costo del test, per loro è di L. 35.000). Chiediamo delucidazioni al capitano della Croce Rossa, il quale sostiene che i test non erano disponibili sino ad oggi. Successivamente apprenderemo che una delle due è risultata positiva al test. Tra le persone incontrate, anche uno straniero con figlio nato in Italia, e per ciò non espellibile. Dalle testimonianze raccolte in questa giornata, come dalle precedenti, emerge una situazione molto poco chiara rispetto alle donne. Quando, prima di uscire, ci avviciniamo alle sbarre, uno degli agenti ci allontana immediatamente. Alcune immigrate chiedono a muso duro se il trattamento loro riservato è diverso perché “non ricambiano” come fanno le altre. Non è che l’ultimo di una serie di indizi e di voci che circolano nel campo, riferite ai rapporti tra le detenute ed i gestori del campo. In particolare, già in un colloquio avuto precedentemente, una delle detenute ci racconta in lacrime che quando ha chiesto una scheda telefonica ad un agente questo ha risposto, – riportiamo fedelmente – “va’ a fare un pompino come tutte le altre” (Corelli anno zero, luglio 1999)
Dunque, che vogliamo fare?