La sera del 30 novembre Adama è uscita dal lager bolognese. Ne siamo felici e le auguriamo di liberarsi al più presto anche dai percorsi di “protezione sociale” che, come abbiamo già avuto modo di verificare, troppo spesso infantilizzano disciplinando la gestione della vita (orari, comportamenti, ecc.) e del denaro.
Rimane aperta, in ogni caso, la questione Cie. La violenza nei confronti delle donne e degli uomini rinchiusi in quei lager non può essere, per noi, occultata dall’ipocrisia istituzionale di una sinistra che usa la terribile storia di una donna per rifarsi una verginità politica dopo aver creato, oltre un decennio fa, quei lager per migranti.
Non intendiamo farci abbindolare da dichiarazioni quali quelle pubblicate su un noto quotidiano all’indomani della “liberazione” di Adama:
Bologna non è rimasta indifferente. “Una vergogna” l’aveva definita il sindaco, e tutta la sinistra si è mobilitata. Dopo la denuncia di Migranda è intervenuto il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri promettendo una “verifica scrupolosa” e un approfondimento in tempi rapidi.
Per questo, e perché la memoria storica non sia un passatempo ma una pratica, riteniamo importante pubblicare la riflessione di alcune compagne romane sulla genealogia dei Cie.
CPT- CIE
I Cie, Centri di identificazione ed Espulsione, sono nati non per internare persone che hanno commesso un reato, ma che non hanno il permesso di soggiorno nel nostro paese.
Sono stati creati come Cpt con la legge 40/1998, Turco-Napolitano, primo governo Prodi, Giorgio Napolitano ministro degli Interni, Livia Turco ministra della Solidarietà Sociale, Luigi Berlinguer ministro della Pubblica Istruzione, Pierluigi Bersani ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato, Tiziano Treu ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Rosy Bindi ministra della Sanità, Walter Veltroni ministro dei Beni Culturali.
La legge fu approvata con votazione ad appello nominale. Votarono a favore anche il Partito della Rifondazione Comunista, compreso l’attuale segretario del Sel, Niki Vendola.
La legge ha introdotto il principio di detenzione amministrativa per cui si può essere internate/i per una condizione, creando un vero e proprio “vulnus” nel concetto di diritto.
La detenzione per condizione e non per reato, porta alla reclusione “amministrativa” di soggetti che per quello che sono e non per quello che fanno, sono passibili di condanna, detenzione e/o internamento.
Il fatto che una condizione, poi, venga rubricata come reato, nulla toglie al concetto di base, anzi lo aggrava, perché rende manifesta l’azione dello Stato di arrogarsi il diritto di definire “reato” qualsiasi comportamento o situazione di per sé.
E’ il trascinamento dallo Stato di diritto allo Stato etico.
Una nota a margine riguarda,chiaramente, il fatto che le leggi non sono nulla di neutrale o al di sopra delle parti, ma rappresentano la sanzione formale di un rapporto di forza.
Il concetto di detenzione per condizione e non per reato, apre scenari inquietanti.
Il fatto che, oggi, a farne e spese siano le migranti ed i migranti considerati, per svariati motivi, irregolari, nulla toglie alla possibilità che, da tanti segnali, è più reale di quanto si possa credere, che venga internata/o chiunque non sia gradita/o al sistema, per condizione di vita (“vagabondi”, senza fissa dimora, senza possibilità di sostentamento?), per scelta comportamentale e/o sessuale (gay, lesbiche, trans, prostitute?), per etnia (Rom, Sinti?), per scelta politica e/o ideologica e dissidenti ritenuti, a qualsiasi titolo, “pericolosi” per la società.
Le donne sono soggettività ad alto rischio, perché il non rientrare nei ruoli, per le non omologate a vario titolo, può essere ragione di condanna sociale e la conseguente “rieducazione” è una possibilità tutt’altro che peregrina. Questa è una società che ha fatto diventare reati penali una miriade di scelte e di comportamenti individuali. Ha criminalizzato la povertà, la mendicità, la condizione di senza casa, la marginalità di chi rovista nei cassonetti… l’assunzione di droghe, bere alcolici, dormire per strada, scrivere sui muri… per non parlare di chi si ribella o si organizza.
Tutto è perseguibile penalmente e amministrativamente.
Il così detto “reato d’autore” o “colpa per il modo di essere”, taterschuld, si è delineato, accanto alla comune concezione di colpa, legata ad un fatto specifico, nella dottrina tedesca , attorno agli anni ‘40: una profonda mutazione genetica per cui non si risponde penalmente per quello che si è commesso, ma per quello che si è. Si è perseguite/i per quello che si è, in riferimento all’estrazione familiare, sociale, all’etnia, al tipo di vita, all’io, al modo di essere e, tutto questo, è l’obiettivo reale della persecuzione penale.
Anche durante il fascismo, in Italia, alla fine degli anni ‘30 furono introdotti i campi di internamento, da non confondere con quelli di concentramento, dove venivano rinchiuse persone non per aver commesso un reato, ma ritenute pericolose socialmente: antifascisti, Rom, omosessuali, a cui si sono aggiunti, dopo le leggi razziali, gli ebrei. Per gli idolatri della legalità, le leggi razziali erano una legge dello Stato e, perciò, andavano rispettate.
Battezzati con i Rom, i campi di internamento cominciarono a proliferare in tutta Italia: ce ne furono anche per sole donne, naturalmente con direttrici donne. Anche allora, commissioni di vario tipo visitavano i campi, prime fra tutte quelle della Croce Rossa che, almeno allora, si asteneva dal gestirli direttamente. Tante persone lavoravano per e intorno ai campi: dalla polizia che andava a prendere a casa o per strada le persone da internare e svolgeva opera di controllo, al personale, spesso civile, dal direttore/direttrice a tutte le altre figure e alle ditte che fornivano il necessario per il funzionamento degli stessi.
E c’era la stampa che, da una parte, demonizzava le pericolose figure degli internati/e e, dall’altra, faceva finta di non sapere dell’esistenza dei campi, se non quando raccontava le lamentele e le paure dei cittadini/e che avevano la “sventura”, poverini/e (!) di viverci accanto.
Fino a qui tutto uguale. Però una differenza c’è. La storia non è ragioneria, ma qualche volta, i conti bisogna farli. Nella nostra democratica repubblica, nei Cie, c’è un numero considerevole e spaventoso di pestaggi, all’ordine del giorno, numerosi casi di morte, sempre rubricata come naturale, di suicidi e di gesti dolorosi di autolesionismo. Chi si infligge orrende mutilazioni, come quella donna che si è cucita la bocca, siccome siamo tanto civili e progredite/i, viene portata nel reparto di neurologia e psichiatria di un ospedale perché qualche esperto/a ci deve mettere a posto la coscienza e dirci che non è disperata, ma soltanto pazza. A tutto questo va aggiunto che (cifre ufficiali) 52.000 “irregolari” sono stati ricondotti forzatamente nel loro paese. Non ci vuole molta fantasia per immaginare in quale inferno li abbiamo gettati.
Nessuno/a dica non sapevo, non immaginavo, non credevo. Non ci sono zone neutre: o si è contro o si è complici. I campi di internamento pensavamo di non vederli più e, invece, dobbiamo fare i conti con i Cie. La rappresentazione ed i ruoli sono sempre gli stessi, però, fra trent’anni, metteranno una targa ricordo nei Cie, faranno qualche convegno, ci porteranno le scolaresche e ci faranno qualche dotto libro.
I Cie non sono un ambito settoriale, ma una proiezione della nostra società. Una volta si diceva che per giudicare un paese bisognava conoscerne il sistema carcerario, oggi hanno trasformato la società in un carcere a cielo aperto.
Le ondate migratorie vengono usate anche per instillare nei cittadini/e la paura del diverso/a, paura sfruttata per legittimare la persecuzione, l’internamento, la deportazione delle/dei migranti e per far accettare una legislazione securitaria sempre più invasiva rispetto alle vite di tutte e di tutti. Da qui l’incentivazione degli atteggiamenti razzisti nella popolazione, funzionali,oltre tutto, ad una guerra fra poveri, in cui i cittadini /e “legittimi” scaricano sul migrante e sul diverso frustrazioni e impossibili rivincite.
Dentro i Cie viene esercitata quotidianamente violenza e violenza di genere, da parte degli operatori in divisa e non. Come possiamo pensare che chi pratica la violenza quotidiana in quell’ambito, fuori da lì sia qualcosa di diverso? Vengono delegati ad essere lì dentro violenti e, fuori, al servizio dei cittadini/e (!?!) E per qualcuno/a diventano interlocutori, come se questo fosse possibile. La violenza insita nel ruolo diventa, poi, anche abitudine. Crediamo ancora che le persone siano al “lavoro” qualche cosa e in famiglia o nell’ambito privato, diversi? “buoni padri, mariti, figli”?
Quello che succede nei Cie, compresa la violenza di genere, smaschera l’inconsistenza di chi pensa che la soluzione sia nella “convivenza civile” e nell’“educazione alla convivenza fra i sessi”.
E chi sarebbero i referenti di questo messaggio buonista e politicamente corretto, in questo caso? Quelle/i rinchiusi o chi le/li ha rinchiusi? Chi i pestaggi li subisce o chi li fa? E, riguardo al rifiuto della violenza, a chi dobbiamo dire che non va mai praticata? A chi la subisce o a chi la esercita?
I Cie sono un momento molto alto del controllo sociale. Questa è una società basata sullo sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e sulla natura intera e, perciò, ha bisogno dei Cie, delle telecamere, delle intercettazioni telefoniche, delle cimici ambientali, di una legislazione invasiva. Rispetto a questo progetto, partiti, onlus, ong, media, polizia, magistratura, sono tutti chiamati a partecipare.
Siamo tutte/i in libertà vigilata e condizionale. Siamo libere/i di dire e di fare quello che vogliamo purché siamo omologate al pensiero unico di conservazione di questa società. Per chi esce fuori dal coro le parole come democrazia, libertà di opinione e via dicendo non valgono.
Ma i Cie sono, anche, un momento molto alto del controllo del mercato del lavoro. La composizione della popolazione internata è caratterizzata da un gran numero di lavoratori stagionali, soprattutto agricoli, da manovalanza edile, da badanti, domestiche, prostitute, da lavoratori e lavoratrici migranti che sono arrivati da poco in Italia, traghettati nei momenti in cui servono lavoratori in nero nelle campagne, ma anche da lavoratori e lavoratrici migranti che stanno in Italia da tanti anni, che qui hanno ormai famiglia e radici, ma che hanno perso il lavoro e, quindi, anche il permesso di soggiorno. Chi è rinchiusa/o nei Cie non ha più una storia personale, non conta l’età, il lavoro che faceva, i traguardi personali raggiunti e le speranze coltivate e perde il diritto alla parola. Le storie della donna senegalese, da dodici anni in Italia, sei figli, che perde il lavoro e viene internata e della donna tunisina, da ventuno anni in Italia che, licenziata, viene deportata, nonostante quattro figli che è costretta a lasciare qui, sono solo degli esempi fra i tanti.
I Cie costituiscono serbatoio di riserva e di regolamentazione, non a caso si svuotano e si riempiono a seconda delle esigenze delle lavorazioni stagionali, e permettono il ricambio del mercato del lavoro con la deportazione di chi lavora magari qui da tanto e viene sostituita/o con “merce fresca”. I migranti e le migranti lavorano in condizioni di semischiavitù, sono i nuovi schiavi e le nuove schiave della nostra epoca, ma costituiscono anche arma forte di ricatto nei confronti di tutti gli altri lavoratori costretti ad accettare, di conseguenza, condizioni di orario e di retribuzione proibitive.
Ciò che informa le leggi sull’immigrazione è la governabilità dei corpi, non solo dei/delle migranti, ma di tutte/i, allo scopo di garantire il massimo di produttività. In pratica, l’obiettivo principale è una sempre maggiore appropriazione di ricchezza dagli individui messi al lavoro. A conferma che la ricchezza è sempre data dalla quantità di lavoro e che l’obiettivo del capitalismo è appropriarsene nella maggior misura possibile. Gli individui vengono usati come macchine, e, come tali, vengono acquistati, venduti, rottamati. Per fare questo, bisogna piegare le persone alla solitudine e all’insicurezza.
I Cie non sono un raffreddore o qualcosa di patologico, ma fanno parte di questa società. Addentrarsi nella problematica dei Cie significa, quindi, smascherarne la natura intrinsecamente funzionale al sistema e, fare i conti con la loro essenza, è mettere in discussione i principi fondanti di questa organizzazione sociale. Queste strutture sono momento importante di questa società. Infatti sono presenti in tutti i paesi europei in seguito all’adozione di una politica comune sulle migrazioni da parte degli Stati dell’Unione Europea, sancita negli accordi di Schengen del 1995. E’ l’Agenzia Frontex che viene delegata e pagata da noi europei per “tutelare” le frontiere e provvedere anche ai rimpatri forzati.
In questo contesto i partiti e partitini della così detta sinistra partoriscono amenità del tipo che i Cie sono illegali, come se non fossero legge dello Stato, e che violano il diritto internazionale, come se non fossero presenti anche in tutti gli altri paesi europei. Poi, ne fanno un’occasione di sola propaganda contro il centro-destra, dimenticando che sono stati istituiti dal centro-sinistra con il nome di Cpt e che anche nell’Inghilterra laburista e nella Spagna socialista, hanno lavorato e lavorano a pieno regime e con gli stessi criteri con cui operano in Italia.
Ma, l’analisi e le iniziative che la così detta sinistra e le organizzazioni collaterali portano avanti, non sono il frutto di un’errata lettura, tutt’altro. Non possono e non vogliono parlare del controllo sociale che soffoca questa società, perché, di questo controllo, sono partecipi. Infatti, effettuano il trascinamento, nei pochi momenti in cui se ne occupano, della problematica dei Cie sul solo piano dell’antirazzismo e dei risvolti umanitari. E strumentalizzano l’antirazzismo che è un tema nobile, su cui tutte/i abbiamo il dovere di impegnarci, per lavarsi la faccia e per utilizzarlo pro partito, senza toccare il tema centrale che è quello delle scelte neoliberiste, a cui concorrono, e che hanno trasformato questo paese nella fattoria orwelliana.
Però stiamo tranquille/i. Il centro-sinistra, guardate la regione toscana, non vuole i Cie solo in ogni regione, ma in ogni provincia e, come dicono i partitini della così detta sinistra “radicale”, li vogliono “umani” e con la partecipazione di quelle associazioni umanitarie che, guarda caso, gravitano intorno a questi partiti e partitini. Non esistono Cie dal volto umano, non esistono guerre “umanitarie”, non esistono torture per un buon motivo, magari con l’assistenza di medici ed esperti.
Le leggi sull’immigrazione e i Cie hanno una rilevanza che va ben oltre il campo specifico ed è per questo che le femministe ed i solidali e le solidali che se ne occupano da tanto tempo sono oggetto di una particolare attenzione repressiva.
GLF – GRUPPO DI LAVORO FEMMINISTA – ROMA – Contro i Cie e contro il controllo sociale