Lo stupro perfetto: puttana, negra e clandestina

Riproponiamo la lettura di questo articolo-intervista pubblicato qualche anno fa dal Diario del mese (anno VI n. 6, 20-10-2006).

Lo stupro perfetto: puttana, negra e clandestina

Ogni africana stuprata è un’italiana salvata. Ed è una vittima perfetta: l’africana stuprata tace.

di Laura Maragnani

Il problema è solo questo, dice Isoke: da dove cominciare a raccontare.

Da Judith, 14 anni appena, che alla sua prima sera di lavoro sui marciapiedi romani della Salaria è stata stuprata e picchiata dal primo cliente, e poi lasciata sull’asfalto più morta che viva? O da Joy, che era incinta, e che ha perso il bambino che aspettava? Da Gladys, a cui un cliente ha distrutto l’ano violentandola tre-quattro volte di fila? O da Rose, stuprata da chissà quanti e in chissà che modo, fino ad avere l’utero perforato; e che, pure, non osava nemmeno mettere piede in un ospedale per curarsi?

Non sono le storie che mancano. Anzi, sono perfino troppe, quaggiù, sugli affollati marciapiedi d’Italia. Gli stupri qui sono roba quotidiana; violenti, se non addirittura atroci; eppure assolutamente invisibili, e dunque assolutamente impuniti: «Perché le ragazze non denunciano mai. E nemmeno vanno al pronto soccorso, a meno di non essere moribonde», spiega Isoke. E la voce le trema. Le viene da piangere.

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A che serve la memoria?

A CHE SERVE LA MEMORIA?
Giustamente si  ricorda l’orrore dei lager nazisti, ma si  continua a tacere sull’orrore dei Centri di identificazione ed espulsione
 
Joy e Hellen non devono tornare nelle mani degli aguzzini!
Nei giorni della memoria in Lombardia si sono moltiplicate le iniziative per ricordare gli atroci lager che il nazismo costruì per annientare e cancellare dal mondo gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i dissidenti politici, considerati alla stregua di “nonpersone”.
In Italia e in Europa vi fu complicità e indifferenza di fronte alla deportazione di uomini, donne e bambini, sospinti a pugni e schiaffi verso i treni che li avrebbero condotti allo sterminio. Oggi si condanna quell’indifferenza che giustamente appare come una barbarie peggiore dell’odio, qualcosa di impensabile, impossibile da replicare.
Ma tale barbarie si sta ripetendo: la detenzione nei lager chiamati Cie (Centri di identificazione ed espulsione), la deportazione nei paesi di origine, il respingimento di massa e la reclusione nei campi di concentramento in Libia come in Marocco, sono la risposta che l’Europa di Schengen ha scelto di dare alla questione della migrazione.
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Joy ed Hellen non devono tornare nelle mani degli aguzzini!

 
 
"Oggi uno dei nostri (Elabbouby Moahamed) è venuto a mancare, è suicidato con il gas dopo avere saputo che sarebbe finito al centro di accoglienza nuovamente dopo la scarcerazione, e questo l’ha spinto a farla finita". Lo racconta, in una lettera, un compagno di prigionia del ragazzo marocchino morto il 15 gennaio scorso nel carcere di San Vittore a Milano.  
 
E così veniamo a scoprire questo altro aspetto del razzismo di Stato: l’intrappolamento nel meccanismo Cie-carcere-Cie, un meccanismo che moltiplicherà le vittime della violenza sancita per legge, un incubo che non prevede risveglio. Lo ha confermato anche il caso di Karim Zitouni, uno degli imputati nel nuovo (ed ennesimo) processo Corelli, che martedì 19 gennaio, nonostante la sentenza e la pena sospesa, è stato portato da San Vittore direttamente al Cie, senza nemmeno passare per la questura  – considerata prassi burocratica obbligatoria. 
 
A questo punto noi tutte dovremmo chiederci cosa potrebbe succedere se Joy ed Hellen – attualmente recluse nel carcere di Como – all’indomani della scarcerazione, il prossimo 12 febbraio, verranno portate in qualunque Cie d’Italia.
Se tornano in quello di Milano ritrovano Vittorio Addesso & C.; se vengono mandate in un altro Cie, si troveranno davanti altri gestori dell’ordine, colleghi loro, che sanno chi sono le ragazze e che coraggio hanno avuto… E allora cosa potrebbe accadere? 
Il lavoro fatto da tutte noi in questi mesi per denunciare gli abusi e le violenze contro le donne nei Cie e la solidarietà espressa alle migranti rinchiuse in quei lager di Stato devono trasformarsi, da subito, in concretezza: non possiamo permettere che Joy ed Hellen tornino nelle mani dei loro aguzzini.
Invitiamo tutte le compagne, femministe, lesbiche ad attivarsi con le proprie modalità per impedire questa violenza e ricordiamo che il blog Noinonsiamocomplici è a disposizione di tutte le donne che partecipano fattivamente a questa lotta.
Per contatti e segnalazioni: complici@anche.no
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“Non smettevano di chiamarmi zingara puzzolente”

Riprendiamo da Zic la traduzione dell’articolo-testimonianza di una donna romena venuta a lavorare nel 2008 sulla riviera romagnola. L’originale è apparso sul giornale romeno Clujeanul.
 
Schiava in Italia: “Non smettevano di chiamarmi zingara puzzolente”
 
Come molti altri clujeni, ha deciso di andare a lavorare in Italia, affinché la sua famiglia potesse condurre una vita migliore. Ha saputo di un’agenzia che avrebbe potuto trovarle un posto di lavoro là da un’amica che aveva trovato una depliant nella posta. Le è sembrato interessante lo slogan della compagnia: “Per noi sei una persona, non solo un nome”. Ora dice che non lo dimenticherà mai. Questo, però, non perché in Italia sarebbe stata trattata così come dicono queste parole, ma, al contrario, perché ha vissuto sulla sua pelle un’esperienza da incubo, secondo quanto racconta.
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Vittime della violenza di Stato

Il 16 gennaio abbiamo partecipato al corteo organizzato a Livorno dalle/dai familiari delle vittime di Stato. Nostro intento era quello di far conoscere la realtà degli abusi sessuali che le migranti vivono nei Cie e nelle carceri, e per questo abbiamo portato un volantino e lo striscione ‘Nei centri di espulsione la polizia stupra’. A corteo concluso, mentre eravamo sulla via del ritorno, ci è giunta la notizia della morte di Mohammed El Abouby nel carcere di San Vittore. Mohammed, come potete leggere su Macerie, aveva partecipato alla rivolta nel Cie di Corelli lo scorso agosto e in sede processuale aveva accusato l’ispettore-capo Vittorio Addesso per i suoi abusi  quotidiani nel lager di via Corelli, sostenendo anche Joy ed Hellen nella denuncia del tentato stupro – "dimostrando tutto il valore concreto della solidarietà attiva, e pagandone infine il prezzo con la propria vita", come ricorda il Comitato antirazzista milanese in un suo comunicato.

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Fathia, morta per paura di perdere il lavoro

Nei giorni della feroce pulizia etnica di Rosarno, voluta dalla ‘ndrangheta e alimentata dallo Stato, in provincia di Mantova Fathia Fikri, una donna marocchina di 43 anni, è morta in casa davanti alla figlia di cinque anni, che ne ha vegliato il cadavere per ore. Per quanto avesse il permesso di soggiorno, Fathia non voleva farsi visitare né  stare a casa in malattia per paura di perdere il lavoro. 
E’ questa l’ennesima dimostrazione della condizione disumanamente precaria in cui vivono le/i migranti, a causa della ricattabilità data dal permesso di soggiorno legato al lavoro e non alla presenza sul territorio italiano.
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E’ uscito “Nella tua città c’è un lager”, numero 8

 
 
Segnaliamo l’uscita dell’ottavo numero (15-28 dicembre 2009) del bollettino quindicinale sui lager di Stato per migranti. Da stampare e diffondere.
Per leggere i numeri precedenti:
7 (30 novembre – 14 dicembre 2009)
6 (16-29 novembre)
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2009: un anno di violenze razziste contro le donne

 
 
Abbiamo aggiornato il dossier a tutto il 2009, e per fare ciò abbiamo dovuto togliere gli episodi di violenza razzista risalenti all’anno precedente.
Se consideriamo che gli episodi riportati sono solo quelli di cui siamo a conoscenza, quindi una minima parte delle violenze che le donne migranti vivono quotidianamente, è evidente un aumento di queste violenze in particolare dopo l’approvazione del "pacchetto sicurezza", cioè del razzismo di Stato ratificato a livello istituzionale.
A fronte di questo quadro, emerge con nettezza l’ipocrisia del centro-sinistra che, oltre dieci anni dopo aver creato i lager per migranti con la legge Turco-Napolitano e aver posto le basi per il reato di clandestinità, piange lacrime di coccodrillo sull’imbarbarimento delle relazioni umane in questo paese nonché sulle condizioni disumane di vita di donne e uomini fuori e dentro i Cie.
D’altra parte rileviamo, negli ultimi mesi dell’anno appena trascorso, una crescente, se pure ancora insufficiente, volontà di denunciare politicamente l’esistenza di lager nelle città in cui viviamo.
Auspichiamo che questa volontà si traduca, nel 2010, nel moltiplicarsi di pratiche che rompano il nocciolo duro del razzismo e del sessismo.
Auguriamo a tutte, migranti e italiane, un buon anno di lotte.
 
Scarica qui la versione aggiornata del dossier 
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SuiCIEdi: i “suicidi” nei lager di Stato

Una trans si è suicidata nel Cie milanese di via Corelli e non si conoscono le ragioni del gesto, dicevano alcuni lanci di agenzie tra un panettone e l’altro il giorno di natale. 
La questione è ben diversa, e ancora una volta ci conferma quanto sia criminale la legge Turco-Napolitano (legge 40/98) che, per edulcorare la pillola amara della creazione dei lager di Stato per migranti, ha finto di garantire una via d’uscita per le vittime di tratta. L’articolo 18 di quella legge, infatti, garantisce il permesso di soggiorno per le vittime di tratta che decidono di denunciare gli sfruttatori.
Ma da tempo già si sapeva che tale percorso non era così lineare e che spesso alle vittime di tratta si chiede di diventare vere e proprie delatrici, collaboratrici della polizia, senza comunque dare nessuna garanzia sul permesso di soggiorno. 
Il caso di questa ennesima morte di Stato rientra proprio in questa logica: la giovane trans che si è impiccata in Corelli aveva denunciato il suo sfruttatore, ed è stata comunque deportata nel Cie dove ha continuato a subire minacce, come si può ascoltare dalle testimonianze delle/i deportate/i nel lager di via Corelli, che raccontano, ai microfoni di radio Onda Rossa, anche di violenze e angherie oltre che la storia della trans che si è "suicidata"  (non smetteremo mai di scrivere questo verbo tra virgolette…) e di un’altra donna che ci ha tentato.
Ma facciamo anche nomi e cognomi dei responsabili di questa ennesima morte di Stato. 
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Il nome dello stupratore

"Gente per bene" dicono i vicini di casa a proposito della famiglia del ventenne di Bollate (Milano) arrestato il 12 dicembre per aver sequestrato, massacrato di botte e poi stuprato, il 14 novembre scorso, una donna ucraina di 40 anni.
E, naturalmente, i media di regime si guardano bene dal farne il nome e mettono solo, a malapena, le iniziali: S. C.
Perché la "gente per bene", si sa, deve essere protetta. Anche quando stupra. Soprattutto quando stupra.
Dopo varie ricerche in internet riusciamo a risalire al nome, Salvatore, ma il cognome non è proprio dato saperlo. 
Se fosse stato straniero di lui sarebbero stati forniti nome, cognome, profilo antropologico-lombrosiano e curriculum vitae. Perché, si sa, c’è stupratore e stupratore. E quando uno è italiano il suo nome va protetto, perché ne va del buon nome della famiglia e del ‘bel paese’ in cui ha avuto la ‘fortuna’ di nascere.
Ancora una volta, è la cittadinanza dello stupratore che rende più o meno grave la violenza, non il fatto che una donna, l’ennesima, abbia vissuto quello che ha vissuto.
E poi, attenzione: lei era pure straniera, il che rafforza l’italica omertà nel proteggere i propri ‘rampolli’.
Stupisce quasi, dato il livello di miseria a cui sono arrivati i pennivendoli di regime, che questa volta non sia stato fatto il nome della donna violentata, come è accaduto in tante, troppe, altre circostanze…
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